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Occupazione in aumento: cosa vuol dire veramente?

I dati ufficiali parlano chiaro: la disoccupazione in Italia sta calando. Dunque aumenta il numero degli occupati. Ben 159 mila in più rispetto a marzo, un momento nel quale la contrazione era stata tanto forte da far tornare i valori ai livelli di fine 2012. Cala anche la disoccupazione giovanile: meno 1.6 punti con un totale che supera di poco il rotondo, e pur sempre enorme, 40% (40.9% per la precisione). È un buon segno? A prima vista sì, e infatti il governo ci si è buttato a capofitto, nel rilasciare dichiarazioni entusiastiche. Significa che l’Italia sta iniziando a uscire dalla crisi? No, nel modo più assoluto. Cerchiamo di capire il perché. 

Innanzi tutto è pacifico che un aumento dell’occupazione significhi più persone con un po’ di denaro in tasca. E dunque con una potenziale capacità di acquisto maggiore, nel complesso, rispetto a prima, quando i disoccupati erano molti di più. Anche perché, considerando il livello delle retribuzioni di questi “nuovi occupati” (ci torneremo) è facile supporre che tutta la cifra temporaneamente messa nelle loro tasche sarà spesa. Per questi nuovi occupati non ci sarà, in altre parole, alcuna possibilità di pensare neanche lontanamente a risparmiare qualcosa. Siccome nella grandissima maggioranza dei casi si tratta di stipendi netti con un massimo attorno ai mille euro o poco più, è evidente che tali somme, oggi, debbano essere spese per intero, soprattutto per chi è costretto a vivere nelle grandi città, semplicemente per far fronte alle spese di sopravvivenza. Si tratta di un importo che non consente grosse manovre o strategie: tra affitto (o mutuo), trasporti, bollette e cibo, sarà interamente speso. E dunque - per lo Stato - ci sarà l’ulteriore beneficio di veder crescere il gettito fiscale (e nei prossimi trimestri coglieremo le relative dichiarazioni entusiastiche a tal proposito) fosse anche solo per il fatto di vedere incrementare gli introiti derivanti dall’Iva (oltre al resto, che però sarà conteggiato a fine anno). 

A prima vista, accennavamo, il sistema dunque appare funzionare, l’Italia sembra indirizzata su una strada di risalita per il semplice motivo che in teoria tale incremento di occupazione e incassi dovrebbe innescare un processo virtuoso di crescita che andrebbe, questa la speranza del governo, a incrementare ulteriormente i dati al momento già previsti in modo piuttosto roseo in merito alla crescita del Pil per il 2015 (previsione allo 0.6%) e per il 2016 (previsione addirittura all’1.6%). Oltre che alla crescita ulteriore di occupazione.

Eppure le cose stanno diversamente. E per un motivo molto semplice da mettere a fuoco. Tutto il ragionamento appena fatto sarebbe condivisibile se i fondamentali economici del nostro Paese fossero in grado di invertire la propria direzione attraverso una manovra o un’altra. Se, cioè, non fossimo gravati dal meccanismo inestricabile della moneta debito che siamo costretti a usare e della tagliola relativa alle intenzioni speculative cui gli investitori sottopongono i nostri Titoli di Stato, che sono in balia dei mercati. In definitiva se, tutto quanto fatto da Renzi attraverso il Jobs Act (e senza entrare in questa circostanza nel merito specifico di questa “riforma”) fosse una soluzione sostenibile sul medio e sul lungo termine. Ma invece così non è, e capirne il perché equivale a dimostrare la prova del nove della sua insostenibilità. 

Basta concentrarsi sulla cosa più importante: lo sgravio concesso alle aziende per stipulare i nuovi contratti di lavoro “a tutele crescenti” (sic) non è a costo zero per lo Stato. Le aziende possono risparmiare su diverse spese (e infatti stanno cogliendo il “bonus”), che non vengono dunque incamerate dallo Stato, e che al momento, secondo alcune prime stime, ammontano a circa 60 miliardi. Somma che lo Stato, cioè il governo in carica, dovrà trovare da qualche parte, o prima o poi. Il fatto che si sia varato questo provvedimento senza contestualmente definire le risorse attraverso le quali realizzarlo, cioè le famigerate coperture, è già indicativo sulla aleatorietà della sua riuscita. Perché, e questo è il punto, quando si parla di coperture che deve trovare lo Stato, significa che dobbiamo trovarle noi. O meglio, che a noi verranno drenate. In un modo o in un altro. Ovvero attraverso tasse dirette e (oppure) indirette. Un esempio su tutti, anche senza modificare gli scaglioni di Irpef: le tassazioni sugli immobili, che sono triplicate (ne dovremmo avere tutti contezza proprio in questi giorni, visto che sono in scadenza gli acconti relativi a Imu e Tasi…).

Ci sono anche altri motivi, naturalmente, come ad esempio il fatto che per varare tale “grande riforma” si sia dovuto preliminarmente, di fatto, eliminare qualsiasi possibilità di ambire a una pensione futura, per questi nuovi assunti (a meno di continuare a credere alle favole). O ancora la rimozione totale, nel dibattito pubblico, di una domanda che è invece fondamentale, quando si parla di posti di lavoro: di che “posti di lavoro” si tratta? Parlare del numero dei nuovi occupati dice poco, se poi non si va a vedere di che tipo di occupazioni si tratta. Anche un part-time in un call center viene conteggiato come “nuovo posto di lavoro”. E la storia dei mini-jobs negli Stati Uniti (che non stanno portando ad alcuna ripresa, viste le impossibilità della Fed che tuttora non ha idea di come uscire dal circolo vizioso del Quantitative Easing) e di quelli in Germania (che non prevedono accantonamento pensionistico) sono lì a dimostrarlo. Si tratta di soluzioni adatte a sedare, e parzialmente, la situazione immanente, ma senza alcun respiro non diciamo di lungo, ma neanche di medio periodo. Con le conseguenze che è facile immaginare, anche solo facendo dei calcoli aritmetici: i mini-jobs innescano i “lavoratori poveri” di oggi e i poveri assoluti di domani. E lo stesso si può replicare ad alcune tipologie di “nuovi occupati” italiani, che sono la grande maggioranza.

Ma insomma, il ragionamento principale è il primo che abbiamo abbozzato: una manovra che sta dando (alcuni) effetti immediati ma che nello stesso momento in cui li dà crea un problema enorme che si scaricherà su tutti noi (inclusi i nuovi occupati di oggi) semplicemente un po’ più in là.

In estrema sintesi: ciò che oggi viene dato con una mano ai nuovi assunti verrà tolto domani e dopodomani con l’altra mano proprio per drenare il denaro che servirà a coprire il meccanismo fasullo che al momento ha portato alla loro assunzione. Una bella partita di giro incastonata in una grande illusione. Con l’aggravante che, da oggi ad allora, ci sarà stato di mezzo il sudore dei lavoratori. I cui proventi finali dovremmo avere ormai una idea abbastanza certa su dove saranno andati a finire. 

Valerio Lo Monaco

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