Valerio Lo Monaco

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The Social Network perde colpi. Per fortuna

Facebook si svuota, e gli psicoanalisti (supponiamo) torneranno a fatturare di più. Buon segno. Non per gli analisti, ovviamente, ma in senso generale. Soprattutto per chi usa Facebook per motivi professionali (sic!). E forse anche per il mondo della comunicazione e dei contenuti nel suo complesso (ci torniamo a breve).

La notizia recente indica un mero dato numerico, ma visto che Facebook è diventato parte integrante della nostra società, considerata la mole di persone che lo utilizza, il fatto ha una certa rilevanza. Nel terzo trimestre di quest’anno, almeno secondo quanto dichiara GlobalWebIndex in un articolo apparso sul Wall Street Journal, solo il 34% degli iscritti ha aggiornato il proprio “stato” e solo il 37% ha postato qualcosa: c’è un vistosissimo calo complessivo rispetto ai dati precedenti, i quali vedevano, rispettivamente, valori del 50 e del 59%.

Detto in altre parole, Facebook perde appeal, almeno per chi sino a ora lo utilizzava per postare qualcosa. È vero infatti che il 65% degli utenti (rilevamento di giugno scorso) visita il social network quotidianamente, ma il dato riguardo gli utenti che lo visitano per postare è in netto calo. Un calo da far tremare i polsi a chi ha investito nelle azioni del colosso di Zuckerberg. Il quale, infatti, già da qualche mese sta correndo ai ripari. Un calo di questo calibro è ovviamente un segnale molto preoccupante (per chi detiene azioni di Facebook) nel medio e nel lungo periodo: se gli utenti non sono (più) invogliati a pubblicare nuovi contenuti il social network è destinato fatalmente a diminuire la sua rilevanza, visto che la natura stessa dell’oggetto è quella di essere visitato per “vedere” ciò che pubblicano e condividono gli altri, oltre che per pubblicare “propri” contenuti. Ora, se le persone che pubblicano continuano a diminuire, a un certo punto non ci sarà più motivo per andare a visitare la piattaforma (a meno che non lo si voglia fare per sorbirsi annunci pubblicitari).

Facebook, come detto, sta mettendo in opera tutta una serie di strategie per invertire tale tendenza, come ad esempio il fatto di dare l’ok per l’utilizzo dei nickname sulla propria piattaforma oppure aprendo una funzione di chat per comunicare anche tra “non amici”. Soluzioni, entrambe, per estendere le motivazioni, il corsivo è d’obbligo, a interagire. Rispettivamente: anonimato e possibilità di comunicare con persone con le quali non si ha alcuna intenzione di entrare in relazione diretta, anche se virtuale. Grossomodo quello che avviene sull’autobus, quando si scambiano opinioni con persone che non si conoscono e che non si prevede di conoscere più a fondo del tempo di qualche fermata, e di qualche dichiarazione pontificata.

Non è questo (un nuovo) caso per estendere ancora una volta, come fatto diverse altre volte e anche da esimi studiosi, il ragionamento a livello sociale. Per esempio sottolineando ancora una volta la futilità di una piattaforma che se da un lato (evidentemente) assolve a una pseudo-funzione di auto-affermazione della propria esistenza - in un mondo dominato dall’anomia, per esempio postando selfie e pensieri di ovvietà universale - dall’altro comporta l’anestesia di ogni capacità di selezione e approfondimento delle notizie e degli argomenti davvero rilevanti (basta guardare al nostro Paese, o al caso Grecia, per rendersene conto). Ma che il social network per antonomasia stia iniziando una parabola discendente, in termini di utilizzo e diffusione, è un fenomeno che non può essere ignorato.

Le motivazioni che è più facile supporre sono relative a pigrizia e saturazione. In altre parole è molto probabile che a livello di massa si inizi a capire, consapevolmente o meno non importa, della assoluta inutilità del mezzo, almeno per alcuni ambiti: sia a livello personale (a cosa diavolo serve continuare a postare verso il nulla le fotografie dei piatti che preparo?) sia a livello di conoscenza di massa (a cosa diavolo serve pubblicare la bandiera francese e firmare petizioni on-line su un tema, quello dell’Isis, su una piattaforma che non è in grado, per sua natura, di aumentare conoscenza e consapevolezza?).

Invece siamo più propensi a credere a una altra motivazione, o meglio, a una legge non scritta eppure verificabile in ogni ambito: per fare qualcosa, serve una motivazione.Ogni cosa che facciamo deve essere o necessaria, o utile. O quanto meno piacevole e gratificante. Si può iniziare a fare una cosa per la curiosità della novità ma se poi quella cosa non è utile a nulla, né necessaria, e anzi non reca neanche più piacere farla, nemmeno piacere fine a se stesso, a un certo punto prima o poi si smette. A meno che, appunto, continuare a farla non dipenda dall’instaurarsi di una vera e propria patologia.

In altre parole potrebbe essere iniziata a farsi strada, in chi utilizza Facebook, la consapevolezza, o anche solo la percezione, della assoluta inutilità di continuare a utilizzarlo. I contenuti presenti su Facebook derivano da utenti privati, e sono dunque di carattere personale (e personalistico messo in piazza, sic!) o da utenti istituzionali e professionali, nel senso di organizzazioni (aziende, giornali, comunicatori) che hanno il solo motivo di pubblicare nella ragione di ottenere maggiore visibilità per la struttura di pertinenza. In quest’ultimo caso la motivazione (per loro) continua in qualche misura a esistere, per gli altri invece potrebbe iniziare a venire meno.

Il risultato odierno della piattaforma è arrivato dunque a un punto ben preciso: una piazza estesa dove il brusio generale di ogni utente, insieme ai megafoni di chi cerca visibilità spesso utilizzati con il volume al massimo, insieme alle inserzioni pubblicitarie infiltratesi in ogni dove, hanno portato a un frastuono che è difficilmente tollerabile (per chi lo riconosce come tale, beninteso). Soprattutto se, alla fine dei conti, poco utile. E dunque alla presa di coscienza di tenersi alla larga da un ambiente che inizia a diventare inutile da frequentare, oltre che alla lunga noioso, se non proprio spiacevole.

Ascesa e declino di nuove realtà, soprattutto dalla diffusione di internet, non sono una novità. Chi ricorda MySpace? Chi la mega-truffa di Second Life? E chi, già adesso, inizia a non tollerare più persino l’utilizzo di Whatsupp (realtà recentissima) quando riceve grandinate di faccine sorridenti e cuoricini inviate da “contatti” incauti?

Facebook è destinato forse a fare la stessa fine. Per fortuna. Ma per cogliere appieno la portata dell’ascesa e poi del declino delle realtà social e della comunicazione di massa si deve tornare ancora indietro, e precisamente al fenomeno dei blog e delle newsletter. Vale a dire, per quanto riguarda l’Italia, all’inizio del millennio.

Blog e newsletter iniziarono a essere diffusissimi. Sino a che la massa si rese conto di due cose. La prima (nel primo caso): oltre a essere faticoso tenere un blog in cui si cercava di postare ragionamenti di un certo spessore, dunque che richiedevano un certo impegno nella loro realizzazione, la cosa era del tutto inutile se il proprio blog era “letto” da una decina di persone al massimo e non offriva la gratificazione che ci si aspettava originariamente di trarne. La seconda (nel secondo caso): iscriversi a numerose newsletter a un certo punto non faceva altro che riempire la propria casella di posta di contenuti che non si sarebbe mai stati in grado di leggere.

In estrema sintesi: la crescita esponenziale del virtuale e dei contenuti in formato digitale, si scontrava immancabilmente con l’analogico che ci è proprio, ovvero che le nostre giornate non possono durare più di 24 ore e che la nostra capacità di attenzione ha dei limiti non superabili.

Risultato: i blog attivi crollarono in termini numerici, e rimasero in vita quasi solo i migliori, ovvero quelli seguiti e con dei contenuti di un certo spessore, e gli altri si rivolsero altrove, a strumenti di comunicazione che permettevano di esprimersi con minore fatica (ad esempio Facebook). E gli indirizzi email utilizzati originariamente per iscriversi alle newsletter vennero dismessi e sostituiti con altri nuovi, privi del pesante fardello delle iscrizioni fatte a suo tempo.

Adesso, a quanto pare, inizia a calare anche l’utilizzo degli strumenti light: del resto, continuare a usarli per cosa se non per continuare a perdere tempo?

Beninteso, ognuno di noi ha il proprio cosmo di valori e reputa importante e valida una cosa rispetto a una altra, ma la comunicazione non può vivere senza il contenuto. Una comunicazione senza contenuto è un controsenso: a meno di non comunicare, appunto, il nulla. E allora: se il contenuto di quei mezzi di comunicazione è il nulla, diventa prevedibile l’abbandono di quel mezzo, visto che non porta da nessuna parte.

È come se - altra buona notizia - più di qualcuno iniziasse nuovamente a ragionare sul fatto che noi siamo essere analogici, dunque con dei limiti ben precisi. Che tutto sono fuorché una limitazione. L’illimitato (ad esempio del digitale) non è la libertà, ma la dispersione. Perché di limiti c’è bisogno, almeno se si vuole seguire una rotta. Per seguire una rotta c’è assoluto bisogno di limiti entro i quali orientarsi, altrimenti si va alla deriva nel nulla sconosciuto. Cosa piacevole e anche utile quest’ultima: se non ci perdessimo, ogni tanto, difficilmente scopriremmo qualcosa di veramente nuovo. Ma piacevole se temporanea, non indefinita.

E dunque, tornando al web, e all’utilizzo che noi umani possiamo fare degli strumenti di comunicazione disumani che permette, se ci si sceglie dei limiti entro i quali navigare, magari si può pensare anche a tracciare una propria rotta. Sempre che, beninteso, la si voglia seguire, una rotta (e si capisca ancora prima che è necessario farlo).

Va da sé che queste brevi riflessioni che hanno preso spunto dal dato in calo di Facebook aprano scenari di un certo interesse, nell’ambito della comunicazione tutta e in quello giornalistico: entrambi in crisi da almeno un decennio. Perché se aumentano le persone che iniziano a comprendere l’ipnosi nella quale sono state annichilite nel corso degli ultimi anni di promesse social illimitate, allora può darsi che alcune di queste torneranno a scegliere. E nello specifico a scegliere cose ben precise, identificabili, in numero limitato. Come i blog che hanno un senso. Come le newsletter curate sul serio. Come i giornali e le loro comunità che frequentare aggiunge valore per sé.

Lasciando gli altri alla deriva, tra i bit del nulla rumoroso e disorientante. 

Valerio Lo Monaco