Valerio Lo Monaco

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Il destino non è ineluttabile

Nel corso di una nostra trasmissione radiofonica della settimana scorsa, un ascoltatore, intervenendo nella chat di interazione, ha sollevato un argomento non da poco: «Ha ancora senso studiare sui libri, continuare a informarsi, per reiterare ed affermare un principio (quello della decadenza del nostro modello, N.d.R,) che ormai è certo?». In altre parole: si sa già tutto.

È un comune - e comprensibile - segno di rassegnazione, considerando che chi non si è tirato indietro dal voler capire la reale situazione nella quale siamo trova estremamente difficile anche solo immaginare un possibile futuro differente rispetto a quello cui fatalmente sembriamo andare incontro. 

Non solo ci sono tutte le (aritmetiche) certezze che la crisi non potrà che acuirsi, ma soprattutto verifichiamo di giorno in giorno come su questo aspetto, almeno dallo scoppio del 2008 a oggi, non si sia cambiato di un millimetro i fondamenti del modello di sviluppo che a questa crisi ci ha portato. Ed è avvilente doverlo confermare di giorno in giorno.

Da una parte abbiamo i soggetti della speculazione internazionale che continuano imperterriti a percorrere la medesima strada, se non peggio. Da una altra parte verifichiamo ogni giorno che quella strada diventa sempre più stretta e non lascia scampo per chi non fa parte a vario titolo dei gruppi composti da quei “soggetti”. E infine, il che è probabilmente peggio, non si è neanche immaginato, figuriamoci se ci se ne è convinti, che per poter cambiare la situazione serve un ripensamento generale del nostro modello di vita. Come dire: sappiamo che vivere in questo modo non è possibile né sostenibile, e ne siamo certi visto il punto al quale siamo arrivati, ma allo stesso tempo pretendiamo di continuare allo stesso modo e risolvere, con le tecniche che a tale crisi hanno portato, una situazione che si sta avvitando su se stessa ogni giorno che passa.

La cura è sbagliata ma continuiamo a farcela somministrare.

È sempre attraverso il mantra della crescita che si pretende di far uscire il globo e le popolazioni che lo abitano da una crisi causata proprio da un eccesso di crescita. Le classi della speculazione e della finanza continuano il great game della moneta virtuale, e le classi politiche, a livello nazionale, continuano a inseguire la crescita per far uscire gli Stati dalla condizione di crisi nella quale la finanza e la speculazione li ha versati. 

Ma è un vicolo cieco: ammesso - e non concesso - che si possa uscire dalla crisi con la crescita di prodotti e servizi, e dunque con la crescita dei consumi che essi sarebbero in grado di generare, si evita accuratamente di prendere coscienza del fatto che, come abbiamo rilevato spesso, da una parte “il lavoro è finito”, perché abbiamo troppo di tutto (di servizi, di oggetti, di merce), dall’altro lato non c’è quasi più nessuno che vuole investire su qualcosa di concreto. Per non parlare poi del fatto che non si può, per motivi fisici, continuare a crescere e a produrre e consumare merce in un modo che è per sua natura "finito". Per “fare soldi”, che questo è l’obiettivo di chi oggi intende “investire”, non c’è quasi alcun settore materiale che possa rendere bene, tanto che, appunto, fondi sovrani e grandi gruppi economici e finanziari puntano direttamente sulla speculazione immateriale. Borse, mercati, valute e attacchi a Stati e continenti.

Il cerchio si chiude nel momento in cui quest’ultimo tipo di “investimento”, non solo è quello che ci ha portato alla crisi attuale, ma è quello che, e questa volta in modo molto più concreto e materiale che non i bit dei super computer con i quali si porta avanti il meccanismo, si traduce poi nell’acuirsi della crisi reale tra la gente.

Se un fondo speculativo attacca un Paese attraverso il debito pubblico o i Credit Default Swap, poi il Paese “viene costretto” a fare tagli interni, che non fanno altro che indebolire ancora di più anche le pur già poche e vane speranze di ripresa.

Sopra a tutto, naturalmente, complici i media e l’ignoranza diffusa di larga parte di tante popolazioni, non ci si rende conto di un meccanismo che pure è intuitivo, ancora prima che logico. Dunque si procede dritti verso una catastrofe economica e sociale (alle quale, peraltro, si deve pur aggiungere quella ambientale e demografica che rappresentano gli altri enormi temi della nostra modernità).

Come dire: a prima vista, non è che poi il nostro ascoltatore abbia avuto un singulto tanto strano. A vedere le cose, non solo non sembra esserci alcuna speranza, ma sul serio, una volta compreso il meccanismo, appare quasi inutile continuare a studiarlo e a capirlo giorno per giorno, pezzetto per pezzetto, notizia per notizia, evento per evento. Fare così appare più che altro il voler continuamente aggiornarsi sulla cronaca ora per ora dell’affondamento del Titanic.

Tutto sembra già scritto, il destino sembra segnato. Dunque perché continuare a studiare e a capire il fenomeno?

Il fatto è che c’è una inconsapevole tara antropologica e filosofica in questo ragionamento. Che a vario titolo riguarda ognuno di noi. E che però va riconosciuta. Ed eliminata.

Per farlo si deve prendere coscienza di un aspetto: molto dello scoramento che si avverte dipende dal fatto di aver interiorizzato implicitamente, dal punto di vista culturale (e per qualcuno, religioso) le traiettorie storiche tipiche che la nostra cultura porta con sé da millenni. 

Nella storia europea, che è pur sempre la nostra, si sono fiancheggiate due grandi generali concezioni della storia.

Per un cristianesimo (et affini) che vuole l’umanità proiettata in una freccia da un punto A a un punto B di arrivo e altre teorie e religioni che professano la circolarità della storia, non è che possano esserci molte alternative. A prima vista.

Nel primo caso il tutto si risolverà in un punto di arrivo - definitivo - che a vedere la situazione non appare né lontano né piacevole (a meno, appunto, di credere alle religioni). Dall’uomo che “viveva in perfetta armonia con il creatore” a tutto quello che ne è seguito sino a un non meglio precisato armageddon finale dove saranno divisi i buoni dai cattivi, la concezione lineare della storia non prevede molte possibilità differenti. La teoria marxista segue lo stesso schema, dove il punto di arrivo sarebbe la società senza classi.

La concezione lineare della storia, pur nelle differenze da caso a caso, da religione a religione, da filosofia a filosofia, da credenza a credenza, è in sostanza unidimensionale. E soprattutto è (sarebbe) ineluttabile. In altre parole, l’uomo non ha poi molta libertà. Può seguire e far parte della traiettoria e aspettare. A bene vedere, non appare manchi poi molto a destinazione.

A questa concezione lineare, come abbiamo visto di matrice prettamente cristiana, si deve aggiungere nel ragionamento e contrapporre quella ciclica, che è invece di tipo autoctono europeo, e dunque pre-cristiana: prende le basi dall’osservazione del mondo per come è. Alternanze (come le stagioni), concatenazioni (le generazioni), ripetizioni (sorgere e tramontare del sole ecc.): poggia sulla base che l’armonia è possibile e che si basa sulla regolarità dei cicli. Per questo, la storia non ha principio né fine, ma è il teatro di ripetizioni.

In questo secondo caso, oggi si è portati a percepire che siamo fatalmente nella fase discendente del “giro” e che per tornare “a risalire” si dovrà passare necessariamente prima per la parte più in basso, dunque peggiore, e che pertanto i tempi “ancora più neri” devono ancora arrivare. In quest’ultimo caso una speranza di rinascita c’è, ma quello che si ha davanti è un cammino comunque nero, e per molto tempo ancora.

Insomma, concezione lineare o circolare della storia, al momento e nel breve e medio termine (cioè il nostro, quello che ci compete e riguarda) non lasciano scampo alcuno. 

Ma siamo sicuri che la storia sia veramente così, ovvero si comporti seguendo una delle due ipotesi?

Per uscire da due destini che appaiono segnati dobbiamo passare per Nietzsche, dove nel suo Così parlò Zarathustra sostituisce alla concezione ciclica della storia una concezione che è invece risolutamente sferica: il cerchio esiste ancora, ma la linea sparisce. Una sfera rassomiglia al cerchio, ma può, a differenza del cerchio, rotolare in ogni momento su ogni lato, poiché possiede una dimensione in più. 

In altre parole: la storia può in ogni momento svolgersi in ogni direzione possibile, a patto che vi sia una forza, una volontà tanto grande, da imprimerle un movimento. 

È su questo punto, su questa concezione, che noi dobbiamo necessariamente concentrarci. 

Valerio Lo Monaco

(1 - continua)